COP 28, il compromesso possibile: ma è quello che serve?

di Piero Malenotti

Sono trascorsi ormai più di trent’anni anni da quando, nel giugno del 1992, è stata approvata la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul clima, che ha condotto, fra l’altro, all’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto nel 1997 e degli Accordi di Parigi nel 2015, e ha messo in moto la sequenza di incontri annuali della diplomazia internazionale, a cui senz’altro va attribuito il merito di porre periodicamente al centro dell’attenzione mediatica la questione del cambiamento climatico. La COP28 di Dubai, conclusasi il 13 dicembre scorso con una dichiarazione approvata dall’Assemblea, ha avuto inizio, in realtà, all’insegna di un grottesco conflitto d’interessi, con la Presidenza della sessione affidata al Ministro dell’Industria del Paese ospitante, Sultan Al Jaber, che riveste contemporaneamente la carica di Amministratore delegato della compagnia petrolifera nazionale, una delle più importanti su scala globale.

Un conflitto al limite del paradosso, messo ulteriormente in evidenza dallo scoop della BBC che ha diffuso i documenti interni relativi ad una quindicina di incontri preliminari convocati dalla Presidenza, nel corso dei quali si è proposto ai singoli interlocutori di discutere anche di accordi bilaterali concernenti il commercio di idrocarburi. A prescindere dalla valutazione sul ruolo svolto dal Presidente, la Conferenza si è comunque conclusa con l’approvazione di un testo non irrilevante, all’insegna ovviamente del compromesso, insito del resto nel meccanismo procedurale che prescrive l’unanimità, testo sul quale ognuna delle parti in campo potrà rivendicare un parziale successo.